La grotta del Buontalenti nei giardini di Boboli a Firenze

È casuale l’imbattermi nella grotta del Buontalenti e trovarla aperta: infatti solo alle 15:30, e per una decina di minuti (forse anche meno), pochi eletti  – o più semplicemente fortunati – hanno la possibilità di ammirarne la peculiare essenza.

La grotta, costruita tra il 1583 e il 1593, fu progettata da Bernardo Buontalenti e si trova all’interno dei giardini di Boboli, a Firenze.

Non essendo uno storico dell’arte posso solo tentare – malamente – di trascrivere, ma con devota ammirazione e profonda emozione, lo stupore che le sculture, i dipinti, le fontane e i magici soggetti all’interno della grotta mi hanno regalato.

Tutto sembra fiabesco, incantato e irreale.

Tre sono le stanze che si susseguono in questo luogo delicato e privato.

Fin dall’ingresso e già nella prima stanza, stalattiti si avvicendano come guardiane del luogo. Sui muri figure dipinte mi riportano all’infanzia, quando fantasticavo di mondi marini, di luoghi lontani e immaginari abitati da creature dalle forme bizzare, come se fossero state create dalle mani di un pazzo architetto e modellate con una pastura di sabbia e cera. Con un occhio più attento scorgo delle sagome che spuntano dai muri, quasi incorporate in essi. Intravedo sirene, uomini sugli alberi e un vaso circondato dalle forme più diverse che ne ricoprono parte del colore.

 

Un pastore suona mentre porta al pascolo le sue pecore, delle comari conversano e un viandante si riposa, con sguardo perso nel vuoto, appoggiandosi al suo bastone.

Scene bucoliche si alternano nelle tre stanze di questo luogo incantato. In una di esse – ahimè non ricordo quale –  il disegno di una scimmietta che annusa dispettosa un fiore e una nicchia con una colomba nel cielo mi accompagnano alla stanza successiva dove si alternano capre e fiere dai fieri portamenti. Le concrezioni spugnose della grotta si mescolano ai dipinti inghiottendone i confini e i margini come se volessero farne parte; una statua di Paride ed Elena presiede la seconda stanza.

Nella terza e ultima stanza, la Venere scolpita dal Giambologna, posta al centro di una fontana, pare la regina indiscussa dell’antro. Con mano vezzosa si copre i seni toccandosi una spalla, lo sguardo è volto verso il basso e intorno a lei, pennellate sulla parete, ecco spuntare piccole roselline o chissà, non ricordo più, piante e fiori di campo. Qualche sparuto passerotto fa capolino tra un ramo e l’altro, mentre l’ombra della statua si staglia sui muri grazie ad aperture che lasciano filtrare la luce esterna.

…Chissà che meraviglia quando le fontane che fanno parte di questa opera speciale sono in funzione.

Pittura, architettura e scultura si mescolano in questo piccolo capolavoro di rara bellezza  e armonia. Lo garantisco: ne vale decisamente la pena.

 

La Mina, la grotta segreta – Ronda – Andalusia

Visitando i giardini de la Casa del Rey Moro a Ronda, in Andalusia, si può scendere una scalinata, scavata all’interno della roccia  durante il regno moresco intorno al XIV secolo, che conta circa 300 gradini e che porta al fiume che fende in due la città. Questa lunga scala, che sembra condurre agli inferi o al centro della terra, è stata più volte al centro di  storie fantastiche : bellissime principesse la discendevano per le abluzioni o, forse, palazzi nascosti si trovavano al fondo delle scale o nascosti chissà dove tra gli anfratti. Mentre si scende verso il corso d’acqua, che in passato fu l’unico mezzo di sostentamento per i mori assediati dai cristiani, si ha la sensazione di trovarsi in una grotta con goccioline d’acqua che si affacciano timide alle pareti e gradini scivolosi. Piccole nicchie e stanze si susseguono man mano che si scende e l’antro, a tratti spaventoso e freddo, s’illumina gradualmente della luce dell’arrivo.

Giunti in fondo, si apre una distesa d’acqua dai colori che spaziano dal verde all’azzurro, con il riflesso della gola di roccia al di sopra – El Tajo – che si specchia nel fiume.

Sarebbe bello poter visitare anche la Casa del Rey Moro, ma purtroppo non è possibile perché in fase di ristrutturazione. Ci si consola passeggiando nel giardino e ammirando il panorama dall’alto in compagnia di timidi pavoni che si mimetizzano furtivamente tra le siepi.

Conchiglia #9 🐚 – Tuz Gölü – Turchia

Agosto.

Da Instabul percorro la Turchia nel suo cuore verso il mare, esplorando la Cappadocia e le città delle province più nascoste che sonnecchiano ancorate a un tempo passato.

Viaggio verso sud-est da Ankara, la capitale, quando, inaspettatamente,  una distesa di bianco, che si fa luce sferzante nei riflessi del sole di mezzogiorno, si staglia dinnanzi a me.

Sono arrivato a Tuz Gölü, lago salato di questa terra.

In estate questo bacino, ritirandosi, lascia grani di sale che si appoggiano l’uno sull’altro creando un tappeto bianco dove si può camminare e sentirsi a contatto con un luogo magico. La scorza del mio viso brucia, sembra la pelle tirata di un timpano pronto a essere percosso. Vorrei strapparmela di dosso.

Provo a correre verso il centro, allontanandomi dalla costa di qualche metro. Sembra un’illusione senza fine la linea del bianco che taglia di netto l’orizzonte, tra cielo e acqua… Laggiù, immagino, rimangono ancora rivoli d’acqua ad asciugarsi al sole.

Tocco il sale, si sbriciola tra le dita. Infiamma le mie mani.

È così: io continuo a stupirmi di quanti luoghi straordinari e unici ci siano in giro per il mondo.

Sempre.

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Di un bianco abbacinante si presenta il castello di Miramare a Trieste

…e così abbigliato si porge al mare.

Da Piazza Unità d’Italia lo si scorge come se stesse per tuffarsi in acqua, pronto a levare l’ancora e a navigare verso sud; è mancante solo di un paio d’ali. Come polena, una vera sfinge proveniente dall’Egitto, adagiata sull’estremità del piccolo molo privato (e da cui la leggenda narra derivino le disgrazie che colpirono gli abitatori del castello).

Così si schiude davanti al mio sguardo Miramare, la residenza voluta da Massimiliano D’Asburgo e costruita tra il 1856 e il 1860. Animo sensibile – affermano gli storici – Massimiliano volle adornare il suo nido di pace e di serenità con un parco che cingesse il castello e lo proteggesse dal mondo esterno. Abeti, palme, rose e lecci si alternano tra i vialetti che tratteggiano il parco, oggi diventato di proprietà del Comune, mentre i glicini, in primavera, esercitano il loro fascino diffondendo la loro violacea tintura e avvolgendo gli edifici del luogo. Fontane e statue sono disseminate un po’ dovunque e le serre in ferro battuto con ampie vetrate, fatte realizzare da Massimiliano per custodire e far crescere i semi delle piante esotiche che inviava alla residenza quando lontano, sono ancora presenti, seppure in disuso. Una piccola foresteria con un laghetto ospita oggi due bianchi cigni donati al castello dalla comunità triestina.

Affacciandomi dalla lunga balconata che circonda il castello e che offre ai visitatori una vista suggestiva sul mare, mi godo l’orizzonte velato dai riflessi di arancio e cobalto regalati dalla giornata nuvolosa. Improvvisamente, nel mio animo cresce il desiderio di partire e di salpare, magari dal porticciolo, lo stesso dal quale – chissà – salpò verso il Messico Massimiliano, a cui era stata promessa la corona d’imperatore di quel mondo lontano. Immagino che da lì, con la moglie Carlotta, prima di partire, i due riflettessero, volgendo lo sguardo ora verso Trieste ora verso il Carso alle loro spalle, su quali futuri arredi aggiungere al palazzo. Interni che, ahimè, Massimiliano non avrebbe mai visto a causa della sua fucilazione avvenuta in terra messicana. Al rientro – si racconta –  la consorte, disperata, al castello preferì il Castelletto, una piccola dépandance nata su una collinetta del parco: lì trascorse le sue giornate dopo la triste fine della sua storia d’amore. Un glicine ne incornicia, oggi, l’entrata e, a poca distanza, una piccola veranda, si affaccia sulla baia di Grignano, ai piedi dell’incantevole altura.

Nelle sere successive alla visita al castello, dal Molo Audace , che come un braccio si allunga nel mare di Trieste, ho continuato a scrutare laggiù, verso Miramare, in attesa che quel candido veliero salpasse da lì a breve.

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Tramonti siciliani: dalle saline di Trapani a Erice.

La macchina sulla quale sto navigando pare smarrirsi tra le brulle e aride campagne della provincia di Trapani. Non so dove stia andando e quale fine stia inseguendo, ma mi lascio accompagnare tra le vie arse dal sole, tratteggiate finemente dal caso, sull’estrema punta occidentale della Sicilia. Il sole è pronto per accomodarsi sul letto d’acqua e irradia coi raggi l’orizzonte sfumandolo d’arancio. La piccola cinquecento imbocca una stradina sterrata e poi un’altra ancora; curva delicatamente, tira poi dritto con decisione lasciando dietro sé polveri biancastre che si depositano sul manto stradale dissestato. Il mare è sulla sinistra, in subbuglio, e tinteggiato da una sottile patina color ciliegio. Poi, all’improvviso, alla mia destra, appaiono le saline. Si rallenta, con dolcezza, e mi scopro fiancheggiato dall’acqua. Sottili argini suddividono piscine, di varie dimensioni, condite di sale.

L’acqua al loro interno è sospinta dal vento che ne increspa le onde, e sembra plasmare piccole dune che invano vorrebbero assumere una forma ben definita. L’automobile getta l’ancora e arresta la sua corsa. Sbarco e di fronte a me si affaccia un piccolo mulino su cui vigila, sullo sfondo, il monte Erice.

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Come un equilibrista mi avventuro, in punta di piedi, lungo le sottili sponde delle saline e m’imbatto nei primi grani di sale che con la luce del crepuscolo si dipingono di rosa trasformandosi in cristalli delicati. Davanti a me, giganti piramidi di queste gemme preziose si ergono a guardiane del luogo e a dee protettrici di altre, più piccole, disseminate in qualche pozza qua e là.

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Qui, nell’ora prima del tramonto, non è padrona la fretta, né il caos, ma solo la quiete che giunge dopo un’intensa giornata di lavoro. Immagino la pelle dei salinieri sferzata dal riflesso del sole sul bianco del salgemma nelle ore più calde. Assaporo la pace del momento e amplifico la mia aspettativa sul prossimo lido dove approderò: Erice. Ho curiosato tra alcune foto dedicate alla città posta in cima al monte da cui prende in prestito il suo nome. Da lassù, il tramonto sulla baia sottostante, dove mi trovo in questo momento, apparirebbe come un’esplosione superba di fiamme infernali beatificate dall’azzurro del mare.

E – gloriosamente – sarà davvero così.

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Verso il Triangolo d’Oro da Chiang Rai – Thailandia – I° Parte – The White Temple

Da Chiang Rai, nel nord della Thailandia, mi dirigo con un’auto privata verso il luogo dove l’antico Siam incontra il Laos e il Myanmar e dove strizza l’occhio alle lontane montagne della Cina: il cosiddetto Triangolo d’Oro. Qui, le tre nazioni del Sud-Est asiatico sono separate dal fiume Mekong,  che dà vita e speranza agli abitanti dei tanti villaggi che punteggiano le sue rive.

Lungo la strada che conduce al Triangolo d’Oro, una tappa obbligata è la visita al Wat Rong Khun, noto anche come White Temple: un tempio buddista, costruito interamente in gesso bianco, ideato e progettato nel 1997 dalla mente di Chalermchai Kositpipat, eccentrico artista locale.

Avvistato in lontananza, il tempio appare subito maestoso e, nello stesso tempo, mi fa pensare a una grossa meringa con panna che sembra colare da ogni lato dell’edificio, quasi a creare forme geometriche futuriste al limite della raffinatezza del gusto.

Eppure, mi affascina.

Scendo dall’auto e l’accoglienza al tempio me la riservano delle maschere bianche legate ai rami di alcuni alberi che lo circondano; maschere con sembianze di diavoli, mostri e gnomi malefici che sembrano essere i custodi del luogo, lì a intimorirmi, quasi a vietarmi di proseguire oltre.

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Passeggiando tra i giardini del tempio, m’imbatto in piccoli edifici con tetti decorati da fiamme volte verso il cielo e in un drago che si erge da un ruscello gettando dalla bocca zampilli d’acqua. Più in là, un imponente albero in metallo, che ricorda un abete, attira la mia attenzione; è decorato da migliaia di piccoli cuori di acciaio dalle forme allungate e colanti.

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Mi avvicino al ponte che collega il cancello d’ingresso all’entrata del tempio che – ahimè – scopro però essere chiuso per restauri a causa di un recente terremoto. E, tuttavia, lo spettacolo non s’interrompe: l’estro dell’artista si è infatti sviluppato magnificamente anche all’esterno dell’edificio sacro. Ai lati del ponte, sulla distesa d’acqua, punteggiata da fontane a mezza via tra candelabri e grossi cesti di frutta deformi, si stagliano due grossi Naga – i serpenti/dragoni custodi dei templi buddisti. I grossi rettili bianchi si allungano sui parapetti del ponte stesso, decorati con lamine di colore argento o di vetro trasparente che ne delineano le forme, gli occhi e le fauci. S’intravedono anche delle figure misteriose e dei teschi con smorfie congelate in un grido di dolore.

Da uno dei giardini di gesso sottostanti al ponte si protendono decine di mani tese, come nel tentativo di riaffermare la loro passata esistenza, nel desiderio estremo di aggrapparsi a una vita che sembra averli condannati. Tra di esse, alcune tendono un vaso come se stessero chiedendo dell’acqua o del cibo. Non s’incontrano volti, eppure dalla posizione delle mani, alcune contorte e altre  in tensione, traspirano i racconti: storie che vorrebbero essere gridate prima di una fine inevitabile. Tra tutte queste richieste d’aiuto, una sola mano fa un gesto di sfida: un dito medio dall’unghia laccata di rosso. A lei non interessa nulla di questo mondo: un saluto alla morte o alla vita stessa che lo ha abbandonato, quasi a dire: “No, non ti temo, sono pronto”.

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Mi volto, saluto le maschere di diavoli che mi fissano feroci e risalgo in macchina …verso nord.

Conchiglia #8 🐚 – I fiori di colza davanti alla villa “La Rotonda” del Palladio

In prossimità di Vicenza, la primavera accorda, nel massimo della sua potenza rivelatrice, di pennellare di color zafferano un campo ai piedi di Villa Capra, conosciuta ai più come “La Rotonda”.  Arrivando dalla strada statale, all’improvviso si staglia all’orizzonte un tappeto di fiori di colza che ricorda la via di mattoni gialli che accompagnava Dorothy verso il regno di Oz. Il riflesso di questo intenso color mimosa è abbacinante. La villa del Palladio, in cima a una collinetta, sembra adagiata sul fiorito tappeto magico ai suoi piedi, pronta a prendere il volo su questo vello dorato da un momento all’altro. Tutto è diviso precisamente. Il giallo comincia là dove il verde dei campi circostanti termina. Visitando la villa e osservando il campo dall’alto, il contrasto con tutto ciò che circonda la distesa d’oro è ancora più marcato. Un trattore blu si muove deciso tra i toni del giallo, mentre il verde dei campi e degli alberi adiacenti sembra essere l’approdo sicuro di questi fiori in balia di una primavera, qui, al massimo della sua espressione.

 

Conchiglia #7 🐚 – Si parte da un porto

Il fascino della scoperta di un luogo a me sconosciuto comincia dalla partenza e si conclude con il rientro. Nel viaggiare scopro un senso profondo nel momento in cui faccio ritorno al punto di partenza con una valigia gonfia di nuove conoscenze, colori, sapori e con uno sguardo sul mondo diverso da quello con cui ero partito. Amo le partenze: dagli aeroporti, dalle stazioni; ma ho una predilezione per i porti, dove m’immagino che le barche dei pescatori, allineate con le loro antenne verso il cielo, siano in attesa di agganciare i sogni più inaccessibili lassù, tra le stelle, che fanno loro da guida nella notte fonda. Le reti aggrovigliate giacciono sulla banchina, affacciate sulla baia, e riposano al tramonto, prima di essere caricate sulle imbarcazioni, in partenza verso il mare notturno.

“Per arrivare all’infinito, e credo vi si possa arrivare, abbiamo bisogno di un porto, di uno soltanto, sicuro, e da lì partire verso l’indefinito.” – Fernando Pessoa

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Il mio sabato del villaggio …in Vietnam

In agguato piogge improvvise. Il clima umido, il cielo plumbeo, le nuvole basse di certo non fanno presagire un pomeriggio sereno. Eppure, i miei compagni di viaggio insistono per un giro in bicicletta nella campagna vietnamita subito alle spalle della città di Huè; e alla fine, sebbene titubante, mi lascio convincere.

La bicicletta data in dotazione dall’hotel è quella che è: sellino scomodo, manubrio poco saldo e ruota non proprio gonfia. Ma si parte.

Appena lasciata la cittadina con le sue case alte, le strade asfaltate e le macchine chiassose, imbocco una strada sterrata. Gli edifici iniziano a diradarsi e man mano vengono sostituiti dalle distese verdi dei campi di riso, alternati a stagni punteggiati di ninfee colorate. Dei bufali si rotolano nel fango; realizzo di non averne ancora visti durante il mio soggiorno in Vietnam. Sono grandi, sembrano buoni, pacifici e interessati solo a riposare nella loro pozza e a sguazzarci dentro. Hanno corna enormi e piene di fango, ma non fanno paura.

Superando una grossa porta di legno colorata, larga quanto una strada a due corsie, arrivo in un piccolo centro abitato dove c’è una festa in corso. Lanterne ovunque, pronte per essere accese; e tutte le casette in legno sono addobbate da nastri colorati attaccati alle assi e sulle porte. Dei ragazzi mi corrono incontro sorridenti, circondandomi: ai loro occhi devo sembrare un divo. Vogliono fare delle foto con me e mi gioco, così, i miei quindici minuti di celebrità.

Calato il sipario, scendo dalla bicicletta e proseguo a piedi avvicinandomi a nuvole di persone festanti tutte in cerchio. Assisto – per la prima volta nella mia vita – a un combattimento di galli (anche se, in verità, assomigliano più a due grossi tacchini). Presumo che i due pennuti, oramai spiumati e feriti, si stiano battendo da ore. Sembrano stremati, ma fieri. Degli uomini intorno a loro, con i soldi in mano, li incitano a continuare. Certo,  si tratta della cultura locale, eppure mi investe un senso di scoramento. Senza aspettare la fine, passo oltre e proseguo tra i colori di un mercato improvvisato dove alcune ragazze sono intente a cercare tra i loro lunghi capelli uova di pidocchi che, una volta scovate, tolgono meticolosamente con le unghie. Più avanti, in un catino, cinque piccoli coccodrilli sono pronti per essere cucinati, mentre in una gabbietta scodinzolano due cagnolini… e intuisco che non sono lì per essere adottati. Ancora più avanti qualche tartaruga è pronta per essere fatta arrosto. …Ma qui in Vietnam è meglio non farsi troppe domande sulla dieta locale.

Un’immagine si sussegue all’altra: un uomo riposa avvolto nella sua amaca con di fianco la sua moto e le ceste che riprenderà a vendere non appena si sarà svegliato; una ragazza, bendata, si diverte con il gioco della pignatta; poco distante, fiorisce un’aiuola di incensi colorati. Sembra un bel momento, sono tutti felici e ridono, tanto. Le donne che non sono coinvolte nella ricerca dei pidocchi indossano dei cappelli a cono; gli uomini, invece, portano dei cappelli tondeggianti. Quello che ho sulla testa è a cono …e ora capisco l’ilarità e l’insistenza di coloro che volevano fare una foto con me, al mio arrivo.

Il cielo si fa sempre più scuro. Riprendo la bici e lascio alle spalle questo scorcio di oriente per tornare a Huè. Qualche rovina abbandonata, quasi sommersa dalla giungla, puntella il paesaggio. Tutto sembra congelato nel tempo nei dintorni delle città vietnamite, come se l’occidente non avesse ancora intaccato questi angoli di Asia. Sembrerebbe che non ci sia fretta, ma voglia di stare bene.

Le nubi si addensano veloci. Giungo in città un attimo prima dell’arrivo di un forte acquazzone.

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Conchiglia #5🐚 – Le oche del chiostro della cattedrale di Santa Eulalia a Barcellona

Nel chiostro della cattedrale gotica di Santa Eulalia a Barcellona, lontano dal trambusto delle ramblas, tredici bianchissime oche paffute sono le protagoniste indiscusse del giardino interno. Secondo la leggenda, la loro presenza in quel luogo sarebbe da attribuire al fatto che, durante la fase di realizzazione della cattedrale, delle oche sventarono – con il loro vociare – un tentativo di furto dei materiali necessari per la costruzione della chiesa stessa, venendo così elette a paladine di quel luogo sacro. Il numero tredici dovrebbe essere legato, invece, alle tredici torture subìte da Santa Eulalia. Oggi, se ci si affaccia nel giardino, si ha la sensazione di trovarsi in un’aia ben tenuta; e, avvicinandosi con curiosità alle grate del cancello che le ospita, dove loro riposano e passeggiano indisturbate, si rischia di essere rimproverati dai loro schiamazzi starnazzanti. Le oche sono lì, fiere e orgogliose del loro compito, a difesa dei sacri confini. L’atteggiamento guerriero incute quasi timore, dissuadendo così i turisti desiderosi di fare un selfie con loro. Eppure, queste ancelle gloriose che passeggiano tra palme e aranci, regalano al chiostro, durante l’ora della sera, un’atmosfera incantata, a tratti sospesa e misteriosa. Le tredici signore mi sorprendono, mentre si aggirano con quella loro andatura un po’ buffa tra architetture tanto imponenti, regalando al luogo un’aura senza tempo… E, per un attimo, io mi sono immaginato di portarle via da lì e di farmi accompagnare da loro durante la mia esplorazione dei barrios della città, come un novello addestratore d’oche.

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Le oche nel chiostro di Santa Eulalia a Barcellona