Di un bianco abbacinante si presenta il castello di Miramare a Trieste

…e così abbigliato si porge al mare.

Da Piazza Unità d’Italia lo si scorge come se stesse per tuffarsi in acqua, pronto a levare l’ancora e a navigare verso sud; è mancante solo di un paio d’ali. Come polena, una vera sfinge proveniente dall’Egitto, adagiata sull’estremità del piccolo molo privato (e da cui la leggenda narra derivino le disgrazie che colpirono gli abitatori del castello).

Così si schiude davanti al mio sguardo Miramare, la residenza voluta da Massimiliano D’Asburgo e costruita tra il 1856 e il 1860. Animo sensibile – affermano gli storici – Massimiliano volle adornare il suo nido di pace e di serenità con un parco che cingesse il castello e lo proteggesse dal mondo esterno. Abeti, palme, rose e lecci si alternano tra i vialetti che tratteggiano il parco, oggi diventato di proprietà del Comune, mentre i glicini, in primavera, esercitano il loro fascino diffondendo la loro violacea tintura e avvolgendo gli edifici del luogo. Fontane e statue sono disseminate un po’ dovunque e le serre in ferro battuto con ampie vetrate, fatte realizzare da Massimiliano per custodire e far crescere i semi delle piante esotiche che inviava alla residenza quando lontano, sono ancora presenti, seppure in disuso. Una piccola foresteria con un laghetto ospita oggi due bianchi cigni donati al castello dalla comunità triestina.

Affacciandomi dalla lunga balconata che circonda il castello e che offre ai visitatori una vista suggestiva sul mare, mi godo l’orizzonte velato dai riflessi di arancio e cobalto regalati dalla giornata nuvolosa. Improvvisamente, nel mio animo cresce il desiderio di partire e di salpare, magari dal porticciolo, lo stesso dal quale – chissà – salpò verso il Messico Massimiliano, a cui era stata promessa la corona d’imperatore di quel mondo lontano. Immagino che da lì, con la moglie Carlotta, prima di partire, i due riflettessero, volgendo lo sguardo ora verso Trieste ora verso il Carso alle loro spalle, su quali futuri arredi aggiungere al palazzo. Interni che, ahimè, Massimiliano non avrebbe mai visto a causa della sua fucilazione avvenuta in terra messicana. Al rientro – si racconta –  la consorte, disperata, al castello preferì il Castelletto, una piccola dépandance nata su una collinetta del parco: lì trascorse le sue giornate dopo la triste fine della sua storia d’amore. Un glicine ne incornicia, oggi, l’entrata e, a poca distanza, una piccola veranda, si affaccia sulla baia di Grignano, ai piedi dell’incantevole altura.

Nelle sere successive alla visita al castello, dal Molo Audace , che come un braccio si allunga nel mare di Trieste, ho continuato a scrutare laggiù, verso Miramare, in attesa che quel candido veliero salpasse da lì a breve.

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Tramonti siciliani: dalle saline di Trapani a Erice.

La macchina sulla quale sto navigando pare smarrirsi tra le brulle e aride campagne della provincia di Trapani. Non so dove stia andando e quale fine stia inseguendo, ma mi lascio accompagnare tra le vie arse dal sole, tratteggiate finemente dal caso, sull’estrema punta occidentale della Sicilia. Il sole è pronto per accomodarsi sul letto d’acqua e irradia coi raggi l’orizzonte sfumandolo d’arancio. La piccola cinquecento imbocca una stradina sterrata e poi un’altra ancora; curva delicatamente, tira poi dritto con decisione lasciando dietro sé polveri biancastre che si depositano sul manto stradale dissestato. Il mare è sulla sinistra, in subbuglio, e tinteggiato da una sottile patina color ciliegio. Poi, all’improvviso, alla mia destra, appaiono le saline. Si rallenta, con dolcezza, e mi scopro fiancheggiato dall’acqua. Sottili argini suddividono piscine, di varie dimensioni, condite di sale.

L’acqua al loro interno è sospinta dal vento che ne increspa le onde, e sembra plasmare piccole dune che invano vorrebbero assumere una forma ben definita. L’automobile getta l’ancora e arresta la sua corsa. Sbarco e di fronte a me si affaccia un piccolo mulino su cui vigila, sullo sfondo, il monte Erice.

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Come un equilibrista mi avventuro, in punta di piedi, lungo le sottili sponde delle saline e m’imbatto nei primi grani di sale che con la luce del crepuscolo si dipingono di rosa trasformandosi in cristalli delicati. Davanti a me, giganti piramidi di queste gemme preziose si ergono a guardiane del luogo e a dee protettrici di altre, più piccole, disseminate in qualche pozza qua e là.

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Qui, nell’ora prima del tramonto, non è padrona la fretta, né il caos, ma solo la quiete che giunge dopo un’intensa giornata di lavoro. Immagino la pelle dei salinieri sferzata dal riflesso del sole sul bianco del salgemma nelle ore più calde. Assaporo la pace del momento e amplifico la mia aspettativa sul prossimo lido dove approderò: Erice. Ho curiosato tra alcune foto dedicate alla città posta in cima al monte da cui prende in prestito il suo nome. Da lassù, il tramonto sulla baia sottostante, dove mi trovo in questo momento, apparirebbe come un’esplosione superba di fiamme infernali beatificate dall’azzurro del mare.

E – gloriosamente – sarà davvero così.

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Verso il Triangolo d’Oro da Chiang Rai – Thailandia – I° Parte – The White Temple

Da Chiang Rai, nel nord della Thailandia, mi dirigo con un’auto privata verso il luogo dove l’antico Siam incontra il Laos e il Myanmar e dove strizza l’occhio alle lontane montagne della Cina: il cosiddetto Triangolo d’Oro. Qui, le tre nazioni del Sud-Est asiatico sono separate dal fiume Mekong,  che dà vita e speranza agli abitanti dei tanti villaggi che punteggiano le sue rive.

Lungo la strada che conduce al Triangolo d’Oro, una tappa obbligata è la visita al Wat Rong Khun, noto anche come White Temple: un tempio buddista, costruito interamente in gesso bianco, ideato e progettato nel 1997 dalla mente di Chalermchai Kositpipat, eccentrico artista locale.

Avvistato in lontananza, il tempio appare subito maestoso e, nello stesso tempo, mi fa pensare a una grossa meringa con panna che sembra colare da ogni lato dell’edificio, quasi a creare forme geometriche futuriste al limite della raffinatezza del gusto.

Eppure, mi affascina.

Scendo dall’auto e l’accoglienza al tempio me la riservano delle maschere bianche legate ai rami di alcuni alberi che lo circondano; maschere con sembianze di diavoli, mostri e gnomi malefici che sembrano essere i custodi del luogo, lì a intimorirmi, quasi a vietarmi di proseguire oltre.

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Passeggiando tra i giardini del tempio, m’imbatto in piccoli edifici con tetti decorati da fiamme volte verso il cielo e in un drago che si erge da un ruscello gettando dalla bocca zampilli d’acqua. Più in là, un imponente albero in metallo, che ricorda un abete, attira la mia attenzione; è decorato da migliaia di piccoli cuori di acciaio dalle forme allungate e colanti.

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Mi avvicino al ponte che collega il cancello d’ingresso all’entrata del tempio che – ahimè – scopro però essere chiuso per restauri a causa di un recente terremoto. E, tuttavia, lo spettacolo non s’interrompe: l’estro dell’artista si è infatti sviluppato magnificamente anche all’esterno dell’edificio sacro. Ai lati del ponte, sulla distesa d’acqua, punteggiata da fontane a mezza via tra candelabri e grossi cesti di frutta deformi, si stagliano due grossi Naga – i serpenti/dragoni custodi dei templi buddisti. I grossi rettili bianchi si allungano sui parapetti del ponte stesso, decorati con lamine di colore argento o di vetro trasparente che ne delineano le forme, gli occhi e le fauci. S’intravedono anche delle figure misteriose e dei teschi con smorfie congelate in un grido di dolore.

Da uno dei giardini di gesso sottostanti al ponte si protendono decine di mani tese, come nel tentativo di riaffermare la loro passata esistenza, nel desiderio estremo di aggrapparsi a una vita che sembra averli condannati. Tra di esse, alcune tendono un vaso come se stessero chiedendo dell’acqua o del cibo. Non s’incontrano volti, eppure dalla posizione delle mani, alcune contorte e altre  in tensione, traspirano i racconti: storie che vorrebbero essere gridate prima di una fine inevitabile. Tra tutte queste richieste d’aiuto, una sola mano fa un gesto di sfida: un dito medio dall’unghia laccata di rosso. A lei non interessa nulla di questo mondo: un saluto alla morte o alla vita stessa che lo ha abbandonato, quasi a dire: “No, non ti temo, sono pronto”.

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Mi volto, saluto le maschere di diavoli che mi fissano feroci e risalgo in macchina …verso nord.

Conchiglia #8 🐚 – I fiori di colza davanti alla villa “La Rotonda” del Palladio

In prossimità di Vicenza, la primavera accorda, nel massimo della sua potenza rivelatrice, di pennellare di color zafferano un campo ai piedi di Villa Capra, conosciuta ai più come “La Rotonda”.  Arrivando dalla strada statale, all’improvviso si staglia all’orizzonte un tappeto di fiori di colza che ricorda la via di mattoni gialli che accompagnava Dorothy verso il regno di Oz. Il riflesso di questo intenso color mimosa è abbacinante. La villa del Palladio, in cima a una collinetta, sembra adagiata sul fiorito tappeto magico ai suoi piedi, pronta a prendere il volo su questo vello dorato da un momento all’altro. Tutto è diviso precisamente. Il giallo comincia là dove il verde dei campi circostanti termina. Visitando la villa e osservando il campo dall’alto, il contrasto con tutto ciò che circonda la distesa d’oro è ancora più marcato. Un trattore blu si muove deciso tra i toni del giallo, mentre il verde dei campi e degli alberi adiacenti sembra essere l’approdo sicuro di questi fiori in balia di una primavera, qui, al massimo della sua espressione.

 

Conchiglia #7 🐚 – Si parte da un porto

Il fascino della scoperta di un luogo a me sconosciuto comincia dalla partenza e si conclude con il rientro. Nel viaggiare scopro un senso profondo nel momento in cui faccio ritorno al punto di partenza con una valigia gonfia di nuove conoscenze, colori, sapori e con uno sguardo sul mondo diverso da quello con cui ero partito. Amo le partenze: dagli aeroporti, dalle stazioni; ma ho una predilezione per i porti, dove m’immagino che le barche dei pescatori, allineate con le loro antenne verso il cielo, siano in attesa di agganciare i sogni più inaccessibili lassù, tra le stelle, che fanno loro da guida nella notte fonda. Le reti aggrovigliate giacciono sulla banchina, affacciate sulla baia, e riposano al tramonto, prima di essere caricate sulle imbarcazioni, in partenza verso il mare notturno.

“Per arrivare all’infinito, e credo vi si possa arrivare, abbiamo bisogno di un porto, di uno soltanto, sicuro, e da lì partire verso l’indefinito.” – Fernando Pessoa

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Divagazione #2 👀 – Angioletto in una nicchia del giardino della Casa de Pilatos a Siviglia

“Da decenni o forse da secoli me ne stavo assorto tra i miei pensieri, abbandonato in un angolo buio e freddo, quando, bruscamente, mi destarono. A lungo confinato, pieno di polvere, tra le soffitte o i magazzini, il mio bel colore bianco si era appannato. Con cura estrema mi fu restituito il mio etereo pallore e io, felice, ero pronto per riabitare i fasti di un tempo; non vedevo l’ora di tornare a rifulgere tra marmi splendenti e mobili signorili. Ahimè, che sciocco! Il sogno di assaporare di nuovo il calore delle luci della ribalta di candelabri fastosi si spense. L’età aurea che avevo vissuto era oramai superata…  Per me scelsero una nicchia, di un rosso acceso pittato da poco, e senza troppo pensarci su mi sistemarono all’esterno, nel giardino. Ora convivo con laghetti, arbusti, fiori e altre statue; condivido con loro le mie giornate da quassù. Oggi, il rimpianto del tempo passato mi è scivolato via e non mi appartiene più. Le mie ali a riposo sono sorelle che di notte mi fanno compagnia e con loro immaginiamo come sarebbe bello dispiegarci e prendere il volo. Di giorno, con sguardo curioso e la mano sotto il mento, osservo passare amanti, amici e vecchi che mi guardano con tenerezza e fotografano il mio bel cantuccio. Di tutta risposta, da parte mia, ricevono un  buffo sorriso. Alcuni s’inventano storie assurde su di me, sul mio passato, su come e dove avrei vissuto. Mi diverte ascoltarle e per questo, lettore, ti sfido a cercami nel giardino della Casa de Pilatos. Attendo il tuo racconto: la mia storia, se vuoi.”.

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